di Luisa Leone, Responsabile Comunicazione Previndai

In questa intervista con Previndai Media Player il Presidente dell’Ente di previdenza pubblica spiega che prima ancora di pensare a una nuova riforma del sistema pensionistico si dovrebbero garantire ai lavoratori retribuzioni adeguate al presente e al futuro e combattere il lavoro sommerso. Possibile una collaborazione tra previdenza pubblica e privata.

 

Presidente Tridico, la riforma delle pensioni è uscita dai riflettori ma entro fine anno andrà trovata una soluzione allo scadere di Quota 102. Ce la si farà? L’Inps che contributo sta dando al lavoro del governo sul tema?

Dobbiamo ricordare che quota 100 è stata una misura temporanea (tre anni) e quota 102 un suo particolare prolungamento. Sono appunto misure ‘a scadenza’, alle quali alla fine l’adesione è stata inferiore alle attese. Va inoltre detto che, da un punto di vista di sistema, ogni quota è un fattore di rigidità che applica un criterio poco equo e anche poco flessibile: interessa infatti solo alcune persone che si trovano in un certo momento, in una “finestra” non ripetibile, ad avere i requisiti adatti. Invece, l’obiettivo che dobbiamo perseguire è proprio la flessibilità, coniugata alla sostenibilità; una flessibilità che peraltro già in parte esiste nel nostro sistema previdenziale, ad esempio per consentire alcune scelte individuali (opzione donna) o tener conto di lavori particolarmente usuranti (ape sociale, da quest’anno estesa a nuove categorie di lavoratori).  

Il governo ha avviato diversi confronti con le parti sociali per affrontare la tematica previdenziale e la coscienza comune è che il nodo da affrontare sia quello della crescita dell’occupazione, in cui si investe in innovazione e retribuzioni adeguate che con sé portano tutele, welfare integrativo e versamenti contributivi per un dignitoso futuro pensionistico. In questa direzione, Inps fornisce al dibattito studi e simulazioni fondamentali, basati sulla gestione quotidiana di enormi flussi di dati che riguardano praticamente tutta la popolazione del Paese: dai flussi contributivi alle pensioni, dalle decontribuzioni alle imprese ai bonus per lavoratori autonomi, dall’assegno unico e universale ai libretti di famiglia, dalle indennità di disoccupazione agli assegni di invalidità, dal reddito di cittadinanza a quello di emergenza o al recentissimo ‘Bonus 200 euro’.  

 

Lei aveva avanzato l’idea della pensione in ‘due tempi’, per permettere maggiore flessibilità in uscita senza pesare troppo sui conti pubblici. Un’ipotesi ancora attuale?

Qualunque ipotesi si voglia considerare deve offrire flessibilità ma essere sostenibile per i conti pubblici. La mia proposta riesce a coniugare la libera scelta di un individuo di anticipare l’età del proprio pensionamento, con un calcolo che non penalizza l’assegno in modo permanente.  Prevede che chi voglia andare dai 63 anni in poi in pensione anticipata, riceva dal momento del pensionamento e fino ai 67 anni una quota di pensione calcolata in base ai propri versamenti con il sistema contributivo (versamenti post 1996) e che dai 67 anni riceva la pensione piena, sommando quota contributiva e quota retributiva, quest’ultima ovviamente calcolata sui contributi ante 1996.  Tale formula avrebbe un impatto molto limitato sui conti pubblici e garantirebbe una ulteriore forma di flessibilità, lasciando all’individuo la valutazione del momento in cui anticipare l’uscita. 

 

Oltre alla questione della flessibilità in uscita, volendo pensare a una riforma finalmente complessiva del sistema pensionistico, quali altri temi andrebbero toccati? La reversibilità, per esempio, cara agli italiani, potrebbe, o secondo Lei dovrebbe, essere oggetto di riflessioni?

Vorrei sottolineare un punto: non si possono creare continuamente condizioni ‘provvisorie’ che rendono precaria la prospettiva della previdenza. Le grandi riforme del sistema restano quelle attualmente vigenti, la riforma Dini e la legge Fornero. E il modello su cui è basato il nostro welfare pubblico è quello a ripartizione.

Sul tavolo delle riforme, prima ancora delle pensioni, in cima alla lista delle priorità deve esserci la creazione di lavoro, in forme più stabili, tutelate e adeguatamente remunerate. Lavori ‘poveri’ e troppo discontinui produrranno pensioni povere, pensioni che, per essere dignitose e garantire una base di sussistenza, dovranno essere integrate dallo Stato – e quindi dalla fiscalità generale. Prima di questo, dovremmo cercare di fare riforme che diano a milioni persone sottopagate o pagate in nero un salario minimo legale, contratti con adeguati livelli di tutele e rappresentanza sindacale, incentivi al lavoro femminile e prospettive per i giovani.

Per quanto riguarda la reversibilità, la misura è stata già oggetto di diversi interventi di riduzione, quindi non penso sia oggi opportuno ritornare sul tema.  

 

Veniamo alla previdenza complementare, dal suo osservatorio privilegiato, a che punto siamo come Sistema Paese e dove dovremmo arrivare?

Certamente è un ‘mercato’ da sostenere anche con un incremento delle opportunità di accesso attraverso un ventaglio di opzioni ampie e trasparenti, e con opportunità ‘alla portata di ogni tasca’. Dobbiamo continuare a insistere su un cambiamento culturale nei confronti della previdenza, che in passato poteva contare su un sistema di lavoro garantito per quasi tutta la vita lavorativa e quasi sempre nello stesso luogo o professione. La stagnazione, se non l’arretramento, delle retribuzioni italiane negli ultimi 30 anni, e oggi tra le più basse in Europa, non ha consentito il decollo pieno del secondo pilastro, e la lunga crisi del 2008-2017, seguita da due anni di pandemia, non ha permesso di allargare le possibilità dei giovani e dei lavoratori di destinare parti dei loro compensi ad una assicurazione integrativa.

Come accade però nelle dinamiche di mercato, l’ampliamento e la diversificazione dell’offerta può generare attrazione di nuova domanda. Penso che non nuocerebbe al settore privato anche l’introduzione di una previdenza complementare pubblica.

In generale, il futuro della previdenza complementare è legato al futuro della previdenza pubblica da un comune denominatore: la crescita del numero dei lavoratori e della loro produttività, e quindi l’aumento dei salari, che automaticamente portano maggiori entrate contributive ma soprattutto danno al lavoratore un capitale aggiuntivo da investire nelle opportunità del secondo pilastro.

Come Paese, posso dire dove NON dovremmo arrivare: a un futuro di pensioni povere, causate da redditi oggi troppo bassi e vite lavorative troppo precarizzate. Aggiungo che la pandemia ha “rivelato” quanto fragile fosse il tessuto delle tutele previdenziali e assistenziali per i lavoratori autonomi, gli stagionali e altre categorie di lavoratori discontinui (come quelli dello spettacolo o dello sport o nella gig economy), per i quali da un giorno all’altro abbiamo ‘disegnato’ misure di supporto emergenziali. Dovremmo casomai arrivare a un sistema che riconosca il riscatto gratuito dei periodi di alta formazione o ancora che porti le aziende a contribuire con versamenti previdenziali integrativi a favore delle mamme o anche per i padri.

 

Che possibilità di collaborazione vede tra l’Inps e i fondi pensione di secondo pilastro? Quello dell’educazione previdenziale è un tema, si potrebbe affrontare in maniera organica secondo Lei? Ci sono altri spazi auspicabili di collaborazione?

È un tema di grande interesse e deve avere la massima attenzione da parte delle istituzioni. Educazione finanziaria, dei diritti del lavoro e previdenziale devono essere considerati i migliori alleati dell’educazione civica, perché avere cittadini consapevoli e formati fa crescere l’intero Paese. Un’attenta educazione previdenziale mette sotto scacco il lavoro nero, laddove i giovani o qualunque prestatore d’opera è consapevole dei propri diritti e dei danni che fa al suo futuro pensionistico una ‘scappatoia’ senza contributi nel presente. La previdenza è un investimento a tutti gli effetti – e in questo senso va impostato presto, accompagnato con continuità e calibrato con una conoscenza adeguata. 

La comunicazione ha un ruolo fondamentale: dobbiamo riuscire a rendere più accessibili e intellegibili le informazioni che permettono alle persone di scegliere e pianificare il proprio futuro pensionistico. L’innovazione tecnologica e la digitalizzazione ci permettono un balzo in avanti nel raggiungere, attraverso uno smartphone, milioni di utenti e offrire loro nuovi servizi, simulatori e app sempre più sofisticate attraverso le quali possono proiettare e tenere sotto controllo l’evoluzione dei propri ‘scenari’ contributivi. In questo senso, la condivisione di best practices potrebbe accelerare l’adozione di innovazioni e innalzare le performance dei servizi. La collaborazione può partire da piattaforme di formazione e di condivisione di studi e ricerche che permettano una disseminazione costante di informazioni coerenti e certificate.  

Condividi: