Il Presidente di Federmanager, Stefano Cuzzilla, e il Vice presidente di Confindustria, Maurizio Stirpe, tra rischi e opportunità dei prossimi mesi, sottolineano il ruolo che manager e imprenditori potranno avere per la ripresa.

Le ultime stime indicano la possibilità per l’economia italiana di tornare a livelli pre-covid già entro il primo trimestre del 2022, quale il ruolo di imprenditori e manager per spingere questa ripresa?

Stefano Cuzzilla Presidente Federmanager

Il contributo che i manager e gli imprenditori potranno offrire al Paese sarà fondamentale. Per questo dal palco della nostra Assemblea nazionale ho lanciato il “Patto della dirigenza” che, nel solco del “Patto per l’Italia” delineato dal Premier Draghi, intende rafforzare la collaborazione tra i principali attori del sistema istituzionale e produttivo italiano. Le prospettive di crescita che abbiamo all’orizzonte sono più che incoraggianti, ma è indispensabile uno sforzo comune per offrire al Paese le competenze necessarie a realizzare gli ambiziosi obiettivi definiti d’intesa con l’Unione europea. Stiamo attraversando una fase di transizione dominata dalla complessità e dall’incertezza. Tre sono, a mio modo di vedere, gli aspetti su cui oggi si gioca la competitività delle imprese: la digitalizzazione, che deve essere attuata sul piano strategico ancor prima che tecnologico, l’attenzione alla sostenibilità, per la quale i processi stessi di digitalizzazione sono fondamentali, e l’evoluzione del lavoro, dallo smart working a nuove forme di agile management. In questo scenario, non è più sufficiente che le aziende siano focalizzate esclusivamente sulla figura dell’imprenditore; per governare la complessità è necessario che si aprano sempre più alle competenze dei manager, cruciali per realizzare una competitività effettiva.

Maurizio Stirpe
Vice Presidente per il Lavoro e le Relazioni Industriali Confindustria

Il ritorno del nostro Paese ai livelli pre-Covid già nei primi mesi del 2022 è sicuramente una buona notizia, perché significa che la nostra economia sta recuperando più velocemente del previsto da una crisi molto forte, che aveva portato a un calo del PIL pari a quasi il 9 per cento nel 2020. Va, però, sottolineato che si tratta, appunto, di un rimbalzo e che la crisi pandemica è intervenuta in una fase di complessiva debolezza della nostra economia. Ciò è testimoniato dal fatto che nell’ultimo decennio abbiamo fatto registrare un andamento del Pil sempre inferiore alla media europea e che la nostra era l’unica grande economia a non essere ancora tornata ai livelli di ricchezza precedenti alla crisi finanziaria del 2008.

L’Italia, dunque, ha accumulato un profondo gap e, in questo senso, la vera sfida ora è fare in modo che la crescita economica che ci sta portando fuori dalla crisi pandemica non si esaurisca nei prossimi mesi ma sia vigorosa e persistente. Il nostro sistema economico è chiamato a recuperare la competitività persa in un mondo che, dopo la parentesi della pandemia, sarà sempre più interconnesso e in cui le grandi tendenze con cui confrontarsi sono la transizione ecologica e la trasformazione digitale.

Ebbene, le imprese, insieme ai manager, si sono dimostrate da sempre pronte a guidare il cambiamento, anche perché storicamente rappresentano i principali attori del mondo economico, in quanto per loro stessa natura propense alla creazione di valore in modo dinamico. D’altra parte, avremo la possibilità di conseguire tali obiettivi solo facendo gioco di squadra: in altre parole, soprattutto in questa fase, è necessario che l’attore pubblico sia un buon alleato, con politiche economiche lungimiranti che accompagnino le trasformazioni in atto e creino un ambiente favorevole allo sviluppo.

I rischi però non mancano, dall’inflazione ai colli di bottiglia nelle forniture, fino all’incognita di come evolverà la pandemia; quanto preoccupano dal vostro osservatorio e cosa si può fare per limitarne l’impatto?

Stefano Cuzzilla: Le variabili da analizzare sono certamente tante, come in ogni fase epocale di ripartenza. L’uscita graduale dall’emergenza pandemica presenta le insidie che tutti noi sperimentiamo ogni giorno, come cittadini e come rappresentanti di organizzazioni chiamate a lavorare per la ripresa. Più che sulle difficoltà, che teniamo sempre puntualmente in conto, è il momento però di ragionare sulle opportunità che si manifestano. Secondo i dati della Farnesina, nei primi nove mesi del 2021 il valore delle esportazioni di prodotti italiani ha superato i 377 miliardi, andando quindi anche oltre i risultati ottenuti nello stesso periodo del 2019. È il segnale di un’Italia vitale e resiliente, che nel corso della pandemia ha saputo comunque innovare e che continua a garantire produzioni di assoluta eccellenza, decisamente ambite sui mercati esteri. Per guidare questo processo di rinascita produttiva, ribadisco, occorrono però competenze manageriali adeguate alle nuove sfide, come quelle imposte dai mercati digitali. Ecco perché come Federazione siamo in campo per certificare le competenze di digital export manager, innovation manager, manager per la sostenibilità, manager di rete e diverse altre professionalità che oggi servono davvero. Il nostro Paese, inoltre, a differenza di altri competitor internazionali, ha tra i propri punti di forza la presenza di filiere radicate fortemente sul territorio nazionale, in grado di creare benessere e sviluppo. Le riflessioni sul reshoring impongono di rivedere globalmente le catene del valore e il sistema Italia ha molti punti di forza per emergere sui mercati.

Maurizio Stirpe: Quelli citati sono tutti fattori di rischio rilevanti, da monitorare con attenzione.

In primis penso alla pandemia, rispetto alla quale continua a essere di primaria importanza che la campagna vaccinale raggiunga il maggior numero di persone possibile per contenere la crisi sanitaria. Le parti sociali, dal canto loro, hanno dimostrato attenzione al tema: in un momento in cui i vaccini erano ancora una speranza, abbiamo fatto in modo di non bloccare del tutto il Paese e limitare le ricadute sociali dell’emergenza con la firma dei protocolli sulla sicurezza. Quando, poi, i vaccini sono arrivati, siamo stati in prima linea nell’agevolarne la diffusione, anche nei luoghi di lavoro, in quanto consapevoli che i vaccini rimangono la migliore arma a nostra disposizione per sconfiggere il virus.

Accanto all’andamento della curva dei contagi, desta preoccupazione l’aumento dei costi delle materie prime, dell’energia e dei trasporti che sta interessando, seppur con intensità diversa, tutte le economie occidentali. I motivi di questo trend sono molteplici. Da un lato, certamente, abbiamo le politiche monetarie molto espansive degli ultimi anni. Dall’altro, i prezzi stanno risentendo della domanda di commodities ed energia salita molto a causa della ripresa della produzione industriale e degli investimenti, mentre la pandemia ha fatto emergere una serie di criticità e ostacoli nel funzionamento dei flussi commerciali, in particolare via mare (vincoli di capacità nell’offerta di trasporto, carenza di container e di manodopera).

Il fenomeno dell’inflazione, “la più iniqua delle tasse” secondo Einaudi, sicuramente non può essere trascurato perché, da un lato, rischia di soffocare la ripresa in atto e, dall’altro, riaccende il dibattito attorno agli enormi stimoli economici, tanto di natura fiscale quanto di natura monetaria, messi in campo negli ultimi mesi per contrastare la crisi.

È un argomento complesso perché tra le componenti che determinano l’inflazione vi sono anche – e soprattutto – le aspettative degli operatori sul futuro. Dunque, è assolutamente importante mettere in campo politiche fiscali che supportino imprese e famiglie e risolvano i “colli di bottiglia”, anche all’interno di un quadro di coordinamento a livello europeo, ma diventa ancora più centrale per le autorità monetarie muoversi con cautela per non ingenerare ancora più incertezza negli operatori economici.

Per i prossimi anni si punta molto sul Piano nazionale di ripresa e resilienza per stimolare una crescita strutturalmente più elevata di quella degli ultimi anni, quali sono a suo avviso i due-tre elementi fondamentali per non rischiare di perdere questo treno?

Stefano Cuzzilla: Innanzitutto crediamo che sia fondamentale che i manager siano protagonisti dei tavoli tecnici che avranno il compito di attuare gli obiettivi definiti dal Pnrr.

Le parole d’ordine sono: occupazione, inclusività, welfare, transizione ecologica e trasformazione digitale, ma il settore pubblico non ce la può fare da solo. Deve avvalersi delle capacità di chi, per mestiere e per vocazione, è portato a programmare e realizzare il futuro: i manager. I progetti di attuazione del Pnrr vanno messi a terra, avendo ben chiaro quanto sia necessario nel nostro Paese semplificare i processi burocratici, stimolare la concorrenza, ridurre la pressione fiscale e combattere i rischi di corruzione che potrebbero profilarsi. Affinché gli obiettivi del Pnrr siano realizzati l’Italia è chiamata a una capacità di spesa di 10 volte superiore a quella attualmente rilevata. È una grande sfida sulla quale tutte le parti del Paese dovranno misurarsi. Attenzione, non basterà solo il Pnrr per cambiare il Paese, servono interventi normativa chiari, un fisco equo e meno invasivo, una PA pienamente operativa e una giustizia che funzioni. Sono elementi imprescindibili, anche per attrarre investimenti esteri di qualità. È essenziale altresì che la voce dei manager sia ascoltata nel momento in cui viene chiesta maggiore considerazione per la previdenza complementare e la sanità integrativa, due pilastri del nostro sistema di rappresentanza che si rivelano sempre più utili a integrare l’azione dello Stato.

L’emergenza Covid ci ha insegnato tanto, dobbiamo imparare insieme. Deve essere riconosciuto ai fondi pensionistici il loro importante ruolo di investitori istituzionali. Ho personalmente apprezzato moltissimo la decisione del Cda del Previndai di investire alcune centinaia di milioni di euro nell’economia reale, guardando con attenzione soprattutto al mercato italiano. Come ho ricordato anche in occasione della nostra Assemblea, non è accettabile che da più di 20 anni il limite per la deducibilità fiscale per chi si iscrive a un fondo pensione sia rimasto sempre uguale a se stesso. I fondi sono un’opportunità per il Paese e devono essere considerati come un riferimento che favorisca la sinergia tra pubblico e privato.

Maurizio Stirpe: Il Pnrr è un’occasione storica che va sfruttata al massimo. Credo sia molto difficile indicare due/tre elementi fondamentali per la buona riuscita del Piano che, essendo pluriennale e prevedendo un gran numero di interventi, finanziamenti e riforme, necessita di un impegno assiduo e di un monitoraggio altrettanto costante da parte degli attuatori.

Tuttavia, volendo individuare alcune delle priorità per questa prima fase del Piano, il riferimento non può essere che alle riforme indispensabili (“abilitanti”) per la piena attuazione del Pnrr.

In primis, è necessario migliorare la capacità amministrativa nella gestione ai fondi. È bene ricordare che per accedere queste risorse, i governi hanno dovuto individuare non solo i progetti da finanziare ma anche la loro programmazione temporale e gli obiettivi economici che tali interventi devono generare. Tutto ciò in base al principio per cui si ha l’erogazione finale delle risorse solo se gli obiettivi vengono raggiunti. Bisogna, dunque, fare in modo che le pubbliche amministrazioni a tutti i livelli, in un lavoro di squadra con le forse economiche e sociali del Paese, siano in grado di ben progettare, valutare e realizzare i progetti in tempi definiti.

È necessario, poi, fare le riforme che servono: in materia di giustizia, ad esempio, è cruciale velocizzare la macchina giudiziaria, anche implementando soluzioni digitali. In materia fiscale, è necessaria una riforma complessiva e coerente con i principi di equità e progressività, improntata alla semplificazione e ad un approccio efficace nel contrasto all’evasione fiscale. In tema di pubblica amministrazione e burocrazia vi è la necessità di semplificare le procedure e innalzare i livelli di produttività della macchina statale.

Infine, un richiamo alle politiche per il lavoro. Storicamente il sistema delle politiche per il lavoro nel nostro Paese è stato imperniato su interventi passivi di sostegno al reddito per chi perde l’occupazione o è impiegato in un’impresa in crisi. Di fronte alle trasformazioni dell’economia, che il Pnrr si propone di accompagnare, è evidente che quest’obiettivo non è più sufficiente.

Per questo, Confindustria ha sempre incoraggiato un riordino del sistema, ispirandosi ai principi di gradualità ed equità, chiaramente all’interno di un quadro di sostenibilità economica. Un’azione di riforma che permetta di intervenire sugli strumenti di sostegno al reddito per renderli più efficaci e giusti e di attivare un sistema di formazione finalizzato alla riqualificazione professionale e al reimpiego nel mercato del lavoro.

E la legge di Bilancio per il 2022, in discussione in Parlamento? Cosa promuoverebbe e cosa auspicherebbe fosse modificato in sede di conversione?

Stefano Cuzzilla: Partecipiamo naturalmente con attenzione al confronto politico e parlamentare che sta accompagnando i lavori della legge di Bilancio.

Apprezziamo la volontà del Governo di varare un intervento da 8 miliardi di euro per il taglio delle tasse, ma i temi sul tavolo sono molteplici e ci preoccupiamo che non vi sia, come capitato a volte in passato, una sorta di “assalto alla diligenza” per inserire in manovra le misure più disparate. Non dobbiamo assistere a una dispersione delle risorse. Per noi è prioritario che non venga ingiustamente tartassata la categoria che rappresentiamo, sia in termini di fiscalità sia in termini di prospettive pensionistiche e di welfare. I manager non devono continuare a essere una categoria-bersaglio a cui sono spesso affibbiate etichette di comodo. Devono invece ricevere adeguata tutela, in ragione del prezioso contributo allo sviluppo complessivo del Paese e come giusto riconoscimento a una vita di lavoro, responsabilità e risultati conseguiti.

Siamo certamente sensibili ai bisogni delle categorie più in difficoltà, ma il rischio di un approccio eccessivamente redistributivo può indurre a non concentrare le energie del Paese su uno sforzo collettivo. E alla fine, c’è il pericolo di essere tutti più poveri.

Maurizio Stirpe: Penso che la definizione della legge di Bilancio sia uno dei momenti più importanti nella vita politica del Paese. Ogni anno però questo strumento tende a diventare una mera sommatoria di interventi settoriali o di breve respiro, spesso non coordinati tra loro, che perdono di vista l’esigenza che la legge di Bilancio dovrebbe perseguire, ovvero l’implementazione di politiche pubbliche di lungo periodo che aiutino il Paese a essere competitivo.

In altre parole, si nota una certa difficoltà ad instaurare una vera discussione pubblica sui temi fondamentali per le prossime generazioni. Con l’avanzare della sessione di bilancio, il dibattito tende a concentrarsi molto su temi come i prepensionamenti, ad esempio, ossia sul futuro prossimo di chi un lavoro lo ha avuto, e molto poco su temi come gli investimenti sulle nuove generazioni, a partire dal lavoro e dalla scuola. È un dibattito schiacciato sul presente, che invece avrebbe bisogno di orientarsi più su come costruire un ruolo attivo delle persone, per avere una società davvero inclusiva, in grado di contrastare le disuguaglianze, siano esse di genere, di territorio, di età, di conoscenze (il “sapere”) e di competenze (il “saper fare”).

Sul tema, dunque, tenderei a fare un ragionamento più ampio. Più che su misure specifiche per quella attualmente in discussione, il mio auspicio è sul metodo con cui dovremmo definire la legge di Bilancio. Un metodo che dovrebbe prevedere un’accurata selezione degli interventi da attuare, un’approfondita programmazione delle risorse lungo l’orizzonte temporale di riferimento e un attento monitoraggio degli effetti attesi e dei risultati conseguiti per eventualmente correggere il tiro.

Un occhio al mondo del lavoro. Il Covid ha aperto l’universo dello Smart working anche in luoghi in cui non era prima pensabile, qual è il suo giudizio sullo strumento? Pensa sia destinato a occupare un ruolo significativo nell’organizzazione delle aziende anche dopo la fine dell’emergenza sanitaria?

Stefano Cuzzilla: In molti affermano che lo smart working sia il futuro, ma è già parte integrante del presente del mondo del lavoro.

La pandemia ha imposto un’accelerazione inattesa, quanto straordinaria, delle modalità operative che quasi tutti sono stati costretti a seguire. Certo, vi sono talune eccezioni che, in termini pratici, non possono prevedere l’adozione del lavoro a distanza per ovviare alla gestione delle attività quotidiane, ma nella stragrande maggioranza dei casi lo smart working è diventata un’opzione importante, molte volte prevalente e davvero utile.

Da tempo la nostra Federazione promuove un ulteriore passo in avanti, sostenendo una visione di agile management che favorisca l’affermazione della fiducia sul lavoro, accompagnata dalla valorizzazione delle individualità, da un approccio basato sulla responsabilizzazione dei dipendenti, più che sul controllo, e da una concentrazione condivisa sui risultati. È il momento che le imprese vengano ripensate mettendo al centro la persona.

Un’organizzazione agile permette infatti a tutte le persone coinvolte un miglioramento del work-life balance, ingenerando anche indubbi vantaggi sotto il profilo della sostenibilità, della razionalizzazione delle risorse economiche e della produttività.

Maurizio Stirpe: Lo Smart working si è dimostrato tra le misure prevenzionali più efficaci per limitare la diffusione della pandemia, soprattutto nella prima fase dell’emergenza. Quindi, il giudizio non può che essere positivo.

D’altra parte, nonostante quello che chiamiamo Smart working, date le misure di confinamento, sia stato nella realtà dei fatti un lavoro da casa, il suo impiego su una scala così ampia ha rappresentato un valido banco di prova per quello che potrà avvenire in futuro.

Sulla base di queste considerazioni, la mia sensazione è che, una volta tornati alla normalità, possiamo aspettarci che questo nuovo modo di lavorare possa assumere un ruolo significativo nell’organizzazione delle aziende, a condizione che si investa sul capitale fisico, sulle competenze (tecniche, digitali e trasversali) e sulla struttura organizzativa delle imprese.

Dal punto di vista più generale, la pandemia ha comportato l’accelerazione di alcuni fenomeni che erano in corso da tempo e lo smart working è la prova di come le nuove tecnologie siano in grado di cambiare il modo in cui viviamo l’attività lavorativa.

Se un tempo la definizione stessa di “lavoro” ruotava attorno ai concetti di luogo e tempo (l’individuo concede il proprio tempo mettendosi a disposizione in un determinato posto, a fronte di una retribuzione), lo schema dello Smart working si ottiene per sottrazione proprio di questi due concetti (poiché fa riferimento all’attività lavorativa svolta “senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro”).

In questo senso, lo smart working permette di osservare il lavoro “in purezza”, in termini di creazione di valore e conseguimento di risultati. Ma le tecnologie stanno avendo e avranno un impatto rilevante sul lavoro anche per altri aspetti, potendo creare migliori condizioni di lavoro in termini di salute e sicurezza e di bilanciamento con la vita privata.

L’obiettivo, dunque, non può che essere rispondere a queste spinte innovative e fare in modo che il nostro sistema economico sia pronto a gestire i cambiamenti, favorendo gli investimenti, l’acquisizione di competenze nuove e sempre aggiornate e, in ultima analisi, le transizioni verso i nuovi modelli produttivi. In questo processo, un richiamo non può che andare anche alle parti sociali, affinché ci dimostriamo in grado di governare, regolare e possibilmente far avanzare in maniera intelligente l’adozione delle nuove tecnologie in ambito lavorativo.

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