Con la legge di Bilancio il governo Meloni ha introdotto nuove regole per le uscite anticipate. Tagliola sull’indicizzazione degli assegni sopra i 2.100 euro lordi. Perdita di 75 euro al mese per un lordo di 4 mila e fino a 175 a quota 6 mila euro 

Anche il prossimo anno, come il precedente, porterà delle modifiche ai requisiti per lasciare il lavoro in anticipo. Il nuovo governo guidato dal premier, Giorgia Meloni, ha infatti sdoganato la così detta Quota 103, che abbassa il requisito anagrafico previsto dalla precedente Quota 102, portandolo da 64 a 62 anni ma solo con almeno 41 anni di contributi versati (erano 38 nella versione precedente). 

Questa novità però non riguarda tutti, perché per la prima volta nel così detto sistema delle Quote viene introdotto anche un paletto reddituale. Potranno infatti accedere a Quota 103 solo i pensionandi con uno stipendio mensile di non più di 2.600 euro lordi circa. Oltre questa somma non scatterà la possibilità di lasciare il lavoro in anticipo con le nuove regole e si prevede anche un divieto di cumulo con altri redditi, esclusi quelli da lavoro occasionale fino a un tetto massimo di 5 mila euro l’anno di guadagni.

La previsione di un requisito reddituale è pensata per cercare di contenere i costi a carico dello Stato per le uscite anticipate con Quota 103 che, secondo i tecnici del Tesoro, dovrebbero costare 571 milioni nel 2023, che diventerebbero 1,18 miliardi nel 2024. A questa somma bisogna però aggiungere i circa 10 milioni stimati per la riproposizione del così detto Bonus Maroni, ovvero la possibilità di ottenere l’azzeramento della quota di contributi versati dal lavoratore, circa il 9 % della retribuzione lorda, con un conseguente aumento direttamente in busta paga. A questo premio avrà diritto però solo chi avrebbe i requisiti per andare in pensione con Quota 103 ma deciderà di rimanere al lavoro. Inoltre, se si vorrà usufruire del bonus si dovrà accettare che l’importo della pensione rimanga congelato al livello maturato al momento della scelta. 

Proprio per finanziare questi interventi, e anche la proroga di Opzione donna (con modifiche che ne stringono le maglie) e l’Ape sociale, il governo è intervenuto rivedendo le soglie di rivalutazione degli assegni pensionistici per il biennio 2023-2024. Con l’inflazione in corsa, infatti, la spesa per questa voce è attesa in forte crescita, con un incremento di oltre 5 miliardi per il 2022 che sarebbero diventati 21 miliardi l’anno prossimo. Con il nuovo sistema il governo ha risparmiato invece 2,5 miliardi per il 2023 e 4 miliardi circa nel 2024 e 2025, riducendo sensibilmente la percentuale di adeguamento all’inflazione per gli assegni di importo maggiore (vedere tabella sotto).

Queste fasce rimarranno valide fino al 2024, a meno di proroghe future che al momento non è possibile escludere. Nella pratica si tratta di un assegno più basso di circa 75 euro al mese per pensioni da 4 mila euro lorde, che arrivano a 175 euro mensili per gli assegni da 6 mila euro lordi. A questi livelli di reddito, infatti, la quota di indicizzazione riconosciuta scende fino al 32% mentre prima l’adeguamento era al 75% dell’inflazione. Da ricordare comunque che vista l’inflazione per il 2022 l’indicizzazione massima è stata di ben il 7,3%. Le nuove norme prevedono di converso anche un incremento delle pensioni minime, oggi circa 525 euro mensili, attraverso una super-rivalutazione che porterà questi assegni a570 euro nel 2023 e 580 euro nel 2024. La somma salirà a 600 euro per i pensionati ultra-settantacinquenni.

Tutto questo, ancora una volta, in attesa di una complessiva riforma del sistema pensionistico italiano, promessa anche dal neo-governo guidato dal premier Meloni. Una riforma che dovrebbe prevedere novità anche per la previdenza complementare, per rilanciarla e diffonderla sempre più, soprattutto tra i giovani. 

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