Per l’Ocse chi entra oggi nel mondo del lavoro in Italia si ritirerà a 71 anni. Il governo ha messo sul piatto Quota 102 per il 2022 ma l’intento è superare le rigidità della legge Fornero. Per Brambilla (Itinerari Previdenziali) la soluzione dei 64 anni di età e 38 di contributi potrebbe essere quella giusta.
Come un fiume carsico è tornato di nuovo alla ribalta in Italia il tema della riforma delle pensioni. C’era da aspettarselo, visto che non era certo un mistero che la così detta Quota 100 (62 anni di età e 38 anni di contributi) sarebbe scaduta alla fine del 2021, creando uno “scalone” di cinque anni rispetto al ritorno al requisito ordinario dei 67 anni. Un tema caldo anche alla luce degli ultimi dati diffusi dal report Ocse Pensions at a Glance 2021, che evidenzia come nella Penisola chi entra oggi nel mondo del lavoro potrà ritirarsi in media all’età di 71 anni, ben oltre il livello Ocse, che è di 66 anni e lontanissimo da quanto avviene oggi.
Così, su forte pressione di una parte della politica e dei sindacati, l’esecutivo guidato da Mario Draghi ha deciso di intervenire e con la legge di Bilancio 2022 ha previsto l’applicazione di Quota 102, ovvero la possibilità di lasciare il mondo del lavoro con 64 anni di età e 38 anni di contributi, ma solo per il prossimo anno.
“Non sono molto d’accordo nell’utilizzare il termine Quote, che rischia di diventare fuorviante. In tutti i Paesi industrializzati ci sono i cosiddetti requisiti pensionistici e cioè un’età anagrafica e un’anzianità contributiva raggiunte le quali è possibile accedere alla pensione”, commenta con Previndai Media Player il Presidente di Itinerari Previdenziali Alberto Brambilla.
Per l’esperto Quota 102 potrebbe essere più che un semplice passaggio verso una più organica riforma del sistema pensionistico: “E’ una scelta che io spero sia definitiva, perché garantirebbe – con un range di età per il ritiro dai 64 ai 67 anni, che ritengo adeguato all’aspettativa di vita – una flessibilità in uscita che è tipica del metodo di calcolo contributivo e auspicabile all’interno di un sistema pensionistico come il nostro. Anzi credo che si potrebbe spostare in avanti l’asticella fino a un limite di ulteriori tre anni, per avere una forbice di possibili uscite tra 64 e 70/71 anni.
In quest’ultimo caso, cioè per coloro che scegliessero di restare al lavoro fino ai 71 anni, si potrebbe prevedere la possibilità di un superbonus che, insieme al ministro Roberto Maroni, abbiamo già sperimentato nel 2005-2006 con grande successo”.
Ad ogni modo per sapere quale sarà il punto di caduta finale e quindi avere le idee più chiare sulle opportunità che si apriranno (o rimarranno precluse) a chi è più vicino al ritiro bisognerà aspettare ancora qualche mese. Il governo ha proposto infatti l’apertura di un tavolo con i sindacati sul tema della riforma delle pensioni, per cui il libro è ancora tutto da scrivere. Quel che si può dire oggi è che al momento i punti di riferimento dell’esecutivo sembrano essere una maggiore flessibilità in uscita a fronte di un ricalcolo completamente contributivo dell’assegno.
“Non troverei corretto un ricalcolo tutto contributivo dell’assegno, mi sembrerebbe un inutile accanimento se si pensa che oltre l’85% di chi andrà in pensione dal 1 gennaio 2022 sarà nel cosiddetto regime misto, con una quota contributiva iniziata nel gennaio 1996, il che significa avere già oltre il 65% della pensione calcolata con il metodo contributivo. E poiché l’importo della pensione dipende molto dall’età anagrafica al momento del pensionamento, prima si accede alla rendita minore sarà l’importo: non per l’effetto di qualche penalizzazione ma semplicemente perché si beneficerà della pensione per più anni”. Si tratta in ogni caso di una questione di tempo: “probabilmente tra dieci anni chi lascerà il mondo del lavoro avrà già il 95% della sua pensione calcolata in base a quanto realmente versato”.
Di certo c’è che sulla spinta delle novità normative negli ultimi anni l’età media di pensionamento è cresciuta in maniera rilevante, passando dai 58 anni del 1995 ai circa 64 anni del 2020. E anche i risultati dell’esperimento di Quota 100, che ha visto adesioni molto minori di quanto inizialmente previsto dal governo, sembrerebbero suggerire che non ci sia al momento un grande desiderio di fuga di massa verso la pensione.
Si vedrà, intanto è utile ricordare che Quota 102 non è l’unica misura in tema di pensioni prevista nella legge di Bilancio 2022 attualmente in discussione in Parlamento. Il provvedimento prevede infatti anche la proroga della così detta Opzione Donna (58 anni di età e 35 anni di contributi) e l’ampliamento dell’Ape sociale (per determinate categorie con 63 anni di età e 30/36 anni di contributi).
Secondo le stime della Banca d’Italia queste misure, insieme, potrebbero consentire l’uscita anticipata dal mondo del lavoro a circa 55 mila persone nel prossimo anno. Quanto ai costi, per la sola Quota 102, il governo ipotizza un esborso di 176 milioni per il 2022, che diventeranno 1,6 miliardi cumulati nel 2025; mentre dal 2026 l’effetto della misura praticamente si esaurirà.
Tutto questo lavorio riguarda però al momento solo da lontano chi è entrato nel mondo del lavoro dopo il 1996 e quindi rientra nei ranghi dell’esercito del contributivo puro. Per loro, per i più giovani insomma, al momento quello di cui si discute è l’istituzione di una cosiddetta Pensione di Garanzia.
Pensando a questa platea per Brambilla andrebbe innanzitutto superato il fatto che chi è nel sistema contributivo puro può andare in pensione anticipata (oggi 64 anni) solo se, oltre a 20 anni di contributi, ha maturato anche una pensione pari almeno a 2,8 volte l’assegno sociale, ovvero circa 1.300 euro. “Tenuto conto dei redditi attuali e della situazione del mercato del lavoro italiano, molto più flessibile, dinamico e in parte più precario di quanto non lo fosse anni fa, questo significa che probabilmente il 75% delle persone dovrà necessariamente lavorare fino ai 70 anni”.
Quanto alla Pensione di Garanzia l’esperto mette dei paletti: “Non credo che sia giusto immaginarla come la vorrebbe qualcuno, ovvero ti do una certa somma comunque vada, che tu abbia lavorato o no. Sarebbe semmai più giusto ed equo prevedere un’integrazione al minimo anche per i contributivi puri, che oggi non possono beneficiarne”. Per Brambilla, una volta stabilito un ammontare, che potrebbe essere portato dagli attuali 530 a 640 euro, poi “si dovrebbe calcolare la pensione che quel lavoratore ha effettivamente maturato nei suoi anni e integrarla in relazione agli anni di contributi effettivamente versati: più anni hai versato maggiore sarà la compensazione. Questa sarebbe la vera Pensione di Garanzia, perché è giusto che anche i giovani abbiano un’integrazione al minimo, che premi però l’attività lavorativa”.
E pensando al futuro non è possibile non ricordare il tema della previdenza complementare: “Il metodo contributivo ti dà quel che hai versato, premiando soprattutto carriere lunghe e poco discontinue, sempre meno scontate nell’attuale mercato del lavoro italiano. Per cui è evidente che la previdenza complementare, che da noi è ancora una cenerentola, sia sempre più necessaria ai cittadini e al Paese”.